Parliamo di un reperto particolare, che ha segnato profondamente la storia dell’antropologia e della paleontologia.
Nel 1912 fu rinvenuto a Piltdown, in Inghilterra, un cranio completo con mandibola, ritenuto l’anello di congiunzione fra l’uomo e i primati non umani.
Questa scoperta fu fatta dal collezionista e commerciante di antichità Charles Dawson che subito lo portò all’attenzione di Arthur Smith Woodward, curatore della sezione geologica del Natural History Museum di Londra. Il reperto venne attribuito a una specie nuova, chiamata Eoanthropus dawsoni, in onore del suo scopritore.
Durante la Prima guerra mondiale, vennero inoltre rinvenuti anche dei manufatti litici attribuibili idealmente all’Uomo di Piltdown. Nel tempo però crebbero dubbi fra gli studiosi: non si trovava infatti un primate, che fosse scimmia oppure ominide, che condividesse qualche tipo di somiglianza con questo reperto: la calotta cranica, di forma tipicamente umana, era in contraddizione con una mandibola di stampo più “scimmiesco”. Nel 1950 il reperto venne sottoposto a datazione al radiocarbonio, dalla cui analisi risultò non più vecchio di 50 mila anni, un dato non coerente con quelli stratigrafici. Con analisi più approfondite si scoprì infine che il reperto era in realtà un collage fra una teca cranica umana e l’apparato masticatorio di un Orango. Non si scoprì mai chi fu l’artefice di questo falso, ma i sospetti sono sempre ricaduti sul suo presunto scopritore, Dawson.
Come mai ne stiamo parlando qui? Perché nella collezione antropologica di Bologna è conservato un calco di quel reperto inglese, che per quasi mezzo secolo mise in crisi la filogenesi dei primati e che rappresenta uno degli esempi storici più celebri di falso paleontologico.
Alessio Baglioni